Alfa è un’impresa artigiana iscritta nell’apposito albo istituito presso la Camera di Commercio ed applica ai propri dipendenti il CCNL stipulato per il settore artigianato. A decorrere dal mese di novembre 2009 Alfa supera le soglie occupazionali massime consentite per conservare la qualifica di impresa artigiana e ciò nonostante continua ad applicare al proprio personale i trattamenti retributivi e previdenziali previsti dal CCNL di categoria, beneficiando delle agevolazioni economiche di settore. Nel mese di gennaio 2012 il personale ispettivo sottopone a verifica Alfa e constata che quest’ultima non possiede più, da circa tre anni, i requisiti dimensionali per poter essere annoverata come impresa artigiana. Conseguentemente gli ispettori ritengono che tutti i rapporti di lavoro debbano essere regolamentati, sotto il profilo normativo, retributivo e previdenziale, dal CCNL industria e per l’effetto adottano i provvedimenti di diffida volti a riqualificare in tale senso i rapporti in questione. È corretta la decisone degli ispettori?
Premessa
L’art. 7 del D.lgs. n. 124/04 ha attribuito al personale ispettivo il compito di vigilare sui “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, con particolare riferimento allo svolgimento delle attività di vigilanza mirate alla prevenzione ed alla promozione dell’osservanza delle norme di legislazione sociale e del lavoro, ivi compresa l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro[…)]”. Nell’individuare poi i compiti specifici attribuiti agli ispettori al comma 1 lett. b) del citato articolo, è previsto che questi ultimi debbano vigilare sulla “corretta applicazione dei contratti e di accordi collettivi di lavoro”. Dal tenore letterale della disposizione sembrerebbe che il personale ispettivo possa sindacare i criteri con i quali viene identificato il contratto collettivo applicabile ai singoli rapporti di lavoro instaurati dal datore di lavoro. L’esame in altre parole si concentra sul portato attuale dell’art. 2070 c.c. che, dettato sotto la vigenza dell’ordinamento corporativo, sancisce il principio dell’applicabilità del contratto collettivo corrispondente all’attività “effettivamente” esercitata dall’imprenditore. Per comprendere il portato della norma pare opportuna una breve analisi storica dell’istituto
Rilievi storici
L’art. 6, comma 3, della L. n. 563/26, istitutiva dell’ordinamento corporativo, prevedeva che per ciascuna categoria di datori di lavoro, lavoratori, artisti o professionisti potesse essere riconosciuta legalmente una sola associazione, che acquisiva la personalità giuridica di diritto pubblico con decreto dello Stato. In tale modo l’associazione sindacale diveniva un ente ausiliare dello Stato ed era munita del potere di rappresentanza legale di tutti i soggetti appartenenti alla corrispondente categoria produttiva. Considerato che tale rappresentanza veniva esercitata anche nei confronti dei soggetti non iscritti all’associazione, il contratto collettivo stipulato da quest’ultima era vincolante per tutti i soggetti appartenenti alla categoria merceologica ed era inderogabile in peius dal contratto individuale.
Nel 1942, e precisamente con l’emanazione del codice civile, il contratto collettivo è stato inserito tra le fonti del diritto, in posizione gerarchicamente subordinata alla legge e ai regolamenti, ed è stato sottoposto alla specifica disciplina contenuta negli artt. 2067-2077. In prossimità della fine del conflitto mondiale, nel 1944, l’art. 43 del D.lgs.lgt. n. 369/44 ha soppresso l’ordinamento corporativo e la relativa fonte di produzione: la norma corporativa. Tuttavia per non privare d’un tratto i lavoratori delle norme emanate con tale procedimento, l’art. 43 del D.lgs.lgt. n. 369 cit. ha mantenuto in vigore l’efficacia dei contratti stipulati, ”salvo successive modifiche”. Con quest’ultima formula sarebbe stata riconosciuta alle parti sociali, tornate a un regime privatistico, la legittimazione di modificare i contratti collettivi corporativi non soltanto in melius, ma anche in peius per il lavoratore.
Come accennato, con l’ordinamento repubblicano il contratto collettivo è rientrato nella sfera dell’autonomia privata e la sua efficacia è stata così circoscritta ai soli aderenti alle organizzazioni sindacali stipulanti, le quali possono redigere pattuizioni valide erga omnessolo nel rispetto della procedura di cui all’art. 39 Cost. Tale norma, come noto, non è stata attuata e il contratto collettivo previsto da tale disposizione è rimasto un’ipotesi puramente teorica. Ma l’esigenza di dare applicazione ai contratti collettivi, oltre lo stretto ambito degli iscritti alle associazioni stipulanti, era comunemente avvertita.
Sicché, in attesa della mai avvenuta attuazione dell’art. 39 Cost., è stato predisposto un rimedio (nelle intenzioni) transitorio e che di fatto si sovrapponeva alla norma costituzionale: mediante legge delega n. 741/1959 il Governo veniva incaricato ad emanare decreti legislativi per la determinazione dei minimi di trattamento economico e normativo e di lavoro per ciascuna industria. Per raggiungere tale finalità il Governo era comunque tenuto a uniformarsi alle clausole dei contratti collettivi esistenti i cui contenuti venivano integralmente recepiti nel provvedimento. La delega, inizialmente di durata annuale, è stata prorogata con L. n. 1027/60 al fine di consentire la ricezione di una cospicua massa di contratti collettivi, i quali venivano così recepiti in altrettanti decreti. Il meccanismo è stato poi arginato dalla Corte Costituzionale che, con sentenza del 19 dicembre 1962, n. 106, ha dichiarato l’incostituzionalità della L. n. 1027/60 di proroga per contrasto con l’art. 39 Cost. e tutti i decreti emanati per recepire i contratti stipulati nei dieci mesi successivi all’emanazione della L. n. 741 cit. e cioè dopo il 3 ottobre 1959 sono stati conseguentemente ritenuti illegittimi. Sicché anche i residuali decreti delegati hanno allo stato attuale un ruolo alquanto marginale e per ciò che attiene al profilo retributivo possono considerarsi di fatto superati.
Le tipologie di contratti collettivi
Da tale premessa si può pertanto ritenere che nel nostro ordinamento sono individuabili quattro tipi di contratto collettivo:
- il contratto collettivo corporativo di fatto superato o comunque avente un ambito di applicazione molto limitato se non praticamente insignificante;
- il contratto collettivo previsto specificatamente dall’art. 39 della Costituzione rimasto solo un’ipotesi teorica per mancata attuazione della norma;
- il contratto collettivo recepito nei decreti legislativi, in realtà di residuale portata, poiché i contenuti, specie per ciò che riguarda la parte normativa e retributiva, sono stati integralmente superati dalle pattuizioni di diritto comune;
- infine il contratto collettivo c.d. di diritto comune, che costituisce attualmente l’ordinario negozio per la disciplina dei rapporti di lavoro.
Proprio su tale realtà normativa occorre verificare se l’art. 2070 comma 1 c.c. conservi ancora valenza precettiva ed eventualmente rispetto a quale delle tipologie contrattuali sopra richiamate possa ancora essere applicato. In altre parole di tratta di stabilire se l’applicabilità ad un rapporto individuale di lavoro di un certo contratto collettivo debba dipendere dall’oggetto dell’attività economica esercitata dal’impresa, oppure se la configurazione dell’oggetto di detto rapporto sia rimessa all’autonomia negoziale delle parti, esercitata attraverso il richiamo anche implicito ad un contratto collettivo scelto dalla parte datoriale.
Conseguentemente occorre saggiare il contenuto dei poteri ispettivi nell’ipotesi in cui l’impresa applichi un contratto differente rispetto al settore merceologico di appartenenza.
L’assunto favorevole alla natura vincolante dall’art. 2077 comma 1 c.c.
Un filone giurisprudenziale ritiene che la nozione di categoria professionale, corrispondente all’attività economica “effettivamente esercitata” dall’imprenditore, rappresenti un elemento preesistente e prevalente rispetto alle scelte dell’autonomia privata. Sicché, anche nell’ordinamento postcorporativo, all’art. 2070 comma 1 c.c. si deve ancora riconoscere un’effettiva e vincolante finalità pubblicistica. Con la conseguenza che le parti del rapporto di lavoro non potrebbero regolamentare la prestazione lavorativa con un contratto collettivo diverso da quello applicabile in base alla categoria merceologica di riferimento, salvo che, in aderenza al favor prestatoris, dalla convenzione stipulata derivi l’applicazione di regole collettive più vantaggiose per il lavoratore.
La giurisprudenza che considera prevalente la c.d. categoria negoziale
Altro orientamento reputa invece che il comma 1 dell’art. 2070 c.c. opererebbe esclusivamente nei confronti dei contratti collettivi corporativi e di quelli recepiti nei decreti legislativi, ma non riguardi la contrattazione collettiva di diritto comune. Quest’ultima invero avrebbe un’efficacia vincolante circoscritta agli iscritti delle associazioni sindacali stipulanti, nonché per coloro che, esplicitamente o implicitamente, abbiano comunque prestato adesione al patto e nei soli limiti della volontà manifestata dalle suddette organizzazioni sindacali. Secondo tale assunto pertanto la parte datoriale potrebbe applicare ai propri dipendenti anche un contratto collettivo che nulla abbia a che vedere con l’attività esercitata dall’impresa.
Il contrasto risolto dalle SS.UU. della Cassazione
Il contrasto è stata risolto dalle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno sposato la seconda prospettazione sopra indicata, perché rispettosa del principio della libertà sindacale, il quale non tollera che un contratto collettivo di diritto privato, vale a dire non imposto erga omnes, possa essere applicato anche a persone che non vi abbiano direttamente o indirettamente aderito. Non sarebbe d’altra parte ammissibile che, in un ordinamento governato dalla regola generale di inefficacia dell’atto di autonomia privata verso i terzi di cui all’art. 1372 c.c., definizioni autoritative di categorie professionali fungano da strumento coattivo di organizzazione dei datori e dei prestatori di lavoro. Da ciò ne segue che i contratti collettivi di diritto comune, in quanto atti aventi natura negoziale e privatistica, hanno efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, abbiano prestato adesione al contratto. In base a tale assunto le SS.UU., a cui si è uniformata la giurisprudenza successiva, hanno considerato pienamente valide ed efficaci, a disciplinare i rapporti di lavoro presenti nell’impresa, le clausole di un contratto collettivo di diritto comune appartenente a una categoria professionale diversa da quella effettivamente esercitata dell’imprenditore.
Tuttavia sempre secondo le SS.UU. l’eventualità che al rapporto individuale di lavoro si applichi un contratto del tutto innaturale rispetto alle oggettive caratteristiche dell’impresa “[…] non priva completamente di rilievo il contratto di categoria […]”, il quale infatti potrà essere preso come termine di riferimento per la determinazione del trattamento retributivo quando emerge l’inadeguatezza della retribuzione contrattuale ex art. 36 Cost. rispetto all’effettiva attività esercitata dall’imprenditore.
La rilevanza indiretta della c.d. categoria merceologica
La giurisprudenza ritiene altresì che, indirettamente, il carattere vincolante della categoria merceologica e quindi dell’art. 2017 comma 1 c.c. si manifesta anche sotto un ulteriore triplice profilo, oltre a quello retributivo sopra evidenziato:
- per la determinazione del minimale contributivo come disciplinato dall’art. 1 del D.L. 9 ottobre 1989 n. 338, conv. nella legge 7 dicembre 1989 n. 389, successivamente confermata dall’art. 6, ottavo comma, del decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314, atteso che tale previsione è finalizzata a garantire livelli di prestazioni previdenziali commisurate a retribuzioni adeguate alle esigenze di vita e prevede che la base retributiva imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali non possa essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti e, nella più frequente ipotesi in cui manchi tale determinazione, a quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore;
- ai fini della fruizione dei benefici della fiscalizzazione degli oneri sociali per i quali secondo la Corte vale il rilievo pubblicistico che con essi il Legislatore ha inteso perseguire;
- per il riconoscimento delle agevolazioni riconosciute in base all’art. 36 della L. n. 300/70 la cui fruizione è condizionata al rispetto della disciplina collettiva oggettivamente corrispondente all’attività esercitata dall’impresa, con la conseguenza che l’imprenditore che applichi un contratto collettivo differente rispetto alle oggettive caratteristiche dell’impresa non è legittimato a beneficiare dei benefici accordati dalla norma statutaria.
Considerazioni conclusive ed esercizio dei poteri ispettivi
In sintesi si può osservare che se è vero che il principio di libertà sindacale e la regola dell’efficacia inter partes del contratto attribuiscano rilevanza alla c.d. categoria contrattuale, nel senso che riconoscono la libertà di regolamentare i rapporti di lavoro con contratti collettivi appartenenti a contesti merceologici diversi rispetto a quelli effettivamente esercitati dall’imprenditore, è altrettanto vero che tale libertà viene significativamente ridimensionata per il tramite di criteri e incentivi economici che indirettamente ampliano il portato dell’art. 2070 comma 1 c.c. oltre il proprio residuale campo di applicazione, normativamente limitato ai contratti corporativi e a quelli recepiti nei decreti legislativi. Con la conseguenza che le parti del rapporto del lavoro avranno interesse ad applicare il contratto collettivo corrispondente all’oggettiva attività esercitata nell’impresa, onde fruire di benefici, agevolazioni e trattamenti retributivi tipici del settore in cui effettivamente opera l’impresa.
Quanto ai poteri ispettivi si può conseguentemente dedurre che la formula contenuta nell’art. 7 comma 1 lett. a) del D.lgs. n. 124 cit., che assegna al personale di vigilanza il compito pubblicistico di vigilare sulla “corretta applicazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro” non potrà che essere commisurato allo spazio operativo dell’art. 2070 comma 1 c.c..
In altre parole, il personale ispettivo che constati l’applicazione di un contratto collettivo non corrispondente all’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore non potrà in alcun caso adottare provvedimenti volti direttamente a riqualificare normativamente i rapporti di lavoro in senso conforme al contratto stipulato per il contesto merceologico in cui opera l’impresa, se non per quelle residuali materie tuttora regolamentate dalla L. n. 741 cit. e che verosimilmente hanno per oggetto i livelli minimi ed essenziali delle prestazioni di lavoro. Il sindacato degli ispettori sarà invece più penetrante per ciò che riguarda l’applicazione dei trattamenti retributivi e previdenziali che tipizzano il contesto merceologico e sull’eventuale fruizione da parte del datore di lavoro di benefici e/o di agevolazioni accordate sul presupposto dell’applicazione del contratto corrispondente all’attività effettivamente esercitata dall’impresa.
Il caso concreto
Venendo ora al caso concreto risulta che Alfa è iscritta nell’apposito albo istituito presso la Camera di Commercio ed ha sempre applicato ai propri dipendenti il CCNL per il settore artigianato. Tuttavia, a decorrere dal mese di novembre 2009, Alfa ha superato le soglie occupazionali massime consentite per conservare la qualifica di impresa artigiana e ciò nonostante ha continuato ad applicare al proprio personale i trattamenti retributivi e previdenziali previsti dl CCNL di categoria, beneficiando altresì delle agevolazioni economiche di settore. Nel mese di gennaio 2012 il personale ispettivo ha sottoposto a verifica Alfa e ha constatato che quest’ultima dal novembre 2009 non possiede più i requisiti dimensionali prescritti per poter essere annoverata come impresa artigiana. Conseguentemente gli ispettori hanno ritenuto che tutti i rapporti di lavoro dovevano essere regolamentati, sotto il profilo normativo, retributivo e previdenziale, dal CCNL industria e per l’effetto hanno adottato provvedimenti di diffida volti a riqualificare in tal senso i rapporti in questione.
Tale decisone non può ritenersi tecnicamente corretta.
E invero, atteso il principio della libera determinazione nella scelta del contratto collettivo applicabile nell’impresa, gli ispettori non hanno alcun potere di imporre ad Alfa, non più impresa artigiana, di applicare un contratto collettivo diverso da quello artigiano e segnatamente quello dell’industria, e conseguentemente riqualificare complessivamente e in conformità a quest’ultimo contratto i rapporti di lavoro. Diversamente rientra nell’attribuzione del personale ispettivo adottare eventuale provvedimento di diffida accertativa per le differenze retributive, nonché investire l’Ente previdenziale per la rideterminazione dei minimi contributivi previsti dal CCNL industria e per l’eventuale recupero delle agevolazioni economiche fruite nel triennio in cui Alfa ha applicato un contratto non corrispondente allo specifico settore di appartenenza.
NOTE
i Ciò consentiva allo Stato fascista di esercitare consistenti e penetranti controlli nei confronti dell’associazione riconosciuta.
ii Cfr. Cass. Civ. n. 2600/1973.
iii Per le ragioni della mancata attuazione si rinvia alla manualistica tradizionale.
iv I contratti collettivi si erano arricchiti anche di clausole non riconducibili ai minimi normativi e retributivi e la recezione di tali clausole oltrepassava la delega e si poneva in contrasto con l’art. 39 Cost.. Si vedano in tale senso le disposizioni che prevedevano l’istituzione delle Casse Edili e che la Corte Costituzionale ha censurato come illegittime: cfr. sentenza n. 129 del 1963.
v La sentenza contiene importanti principi, tra cui quello che l’art. 39 Cost. non contiene una riserva normativa o contrattuale in favore dei sindacati per la regolamentazione dei rapporti di lavoro.
vi Cfr. Cass. Civ. n. 3877/84, Cass. Civ. n. 8289/87, Cass. Civ. n. 11867/91; Cass. Civ. n. 11554/95.
vii Cfr. Cass. Civ. n. 695/92, Cass. Civ. n. 976/92; Cass. Civ. n. 928/93.
viii Cfr. Cass. Civ. SS.UU. n. 2665/97.
ix Cfr. Cass. Civ. n. 12608/99; Cass. Civ. n. 8565/04.
x Per tutte cfr. Cass. Civ. n. 16246/02. La Corte di Cassazione ha altresì precisato che nel caso di assenza di un contratto collettivo di categoria la determinazione del minimale contributivo va operata con riferimento al contratto collettivo di settore più affine all’attività esercitata dall’imprenditore. Cfr. Cass. Civ. n. 8177/01.
xi Cass. Civ. n. 12915/03.
xii Cfr. Cass. Civ. n. 7333/98.