La contribuzione INPS per i soci di S.r.l. e S.r.l.s.

Sei un imprenditore e gestisci la tua azienda con una società a responsabilità limitata o una semplificata di cui sei socio?

lavori nella tua impresa e non conosci tutti gli obblighi legati alla contribuzione INPS?

Cercheremo di chiarire ogni dubbio.

Chi è considerato socio lavoratore (socio di Srl o Srls)
Sono considerati soci lavoratori coloro che prestano attività professionale nei settori del terziario, commercio e artigianato, personalmente e con carattere di abitualità e prevalenza nell’interesse della società.

Il socio lavoratore che svolge la sua prestazione lavorativa in qualità di titolare, se ne assume la piena responsabilità con tutti gli oneri e i rischi inerenti alla sua direzione e gestione.

Quale copertura previdenziale hanno i soci lavoratori?
I soci lavoratori sono obbligatoriamente iscritti alle apposite Gestioni istituite presso l’INPS (artigiani, commercianti e gestione separata), destinatarie dei relativi contributi. Vedremo quando l’iscrizione è obbligatoria e quando risulta compatibile con altre forme contrattuali e previdenziali.

Se la partecipazione societaria si configura come mera partecipazione agli utili, senza svolgimento di attività lavorativa in azienda, il socio non sarà obbligato all’iscrizione alla relativa cassa previdenziale e non sarà autorizzato a svolgere mansioni operative in azienda.

In caso di ispezione, il socio che viene accertato a partecipare all’attività operativa, viene iscritto d’ufficio nel limite della prescrizione quinquennale.

La gestione Commercianti o Artigiani INPS per soci di Srl e Srls – requisiti e caratteristiche
Devono essere iscritti alla Gestione commercianti o artigiani i soci di società a responsabilità limitata (la medesima cosa vale per i soci di società a responsabilità limitata semplificata c.d. Srls) che partecipano al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza. Lo svolgimento di attività lavorativa con queste caratteristiche, da parte del socio, obbliga il medesimo all’iscrizione presso la gestione Commercianti o Artigiani INPS.

Questo a prescindere dalla quota societaria posseduta, che sia l’1% o il 100% ed a prescindere dal numero dei dipendenti occupati nell’impresa.

Il versamento dei contributi sarà a carico del socio lavoratore che avrà l’onere di versare con modello F24 una quota fissa (contributi sul minimale) di euro 3.825,00 annuali a prescindere dal reddito prodotto, in quattro rate annue (ogni 16 del mese di Febbraio, Maggio, Agosto e Novembre).

Per il reddito eccedente il minimale (15.878,00 euro nel 2019) sarà dovuta una contribuzione aggiuntiva pari al 24,09% del reddito da versare con le imposte sui redditi nel relativo modello UNICO.

Secondo l’INPS, la base imponibile è costituita dalla parte del reddito d’impresa della s.r.l. corrispondente alla quota di partecipazione agli utili a prescindere dall’effettiva distribuzione degli stessi, al socio.

Il socio con l’iscrizione alla gestione commercianti o artigiani è coperto da previdenza obbligatoria ed è autorizzato a svolgere l’attività lavorativa autonoma con la qualità di socio lavoratore.

Compatibilità con il lavoro dipendente
Un socio di Srl o Srls potrà inoltre ricoprire il ruolo di lavoratore subordinato (quindi con contratto di lavoro dipendente), solo se verrà rispettato il requisito del mancato controllo societario (inteso come partecipazione alle quote societarie in grado di controllare la società).

Ciò renderebbe il contratto di lavoro subordinato non legittimo e quindi disconosciuto in fase ispettiva, a causa della sovrapposizione del potere esecutivo con quello direttivo.

Altro elemento discriminante riguardo la legittimità del contratto di lavoratore subordinato, è quello del socio amministratore. Ricoprire il ruolo di amministratore unico porterebbe alle medesime sorti e lo stesso vale anche in caso di pluralità di amministratori che hanno il potere di operare disgiuntamente.

Un lavoratore dipendente quindi potrà anche partecipare agli utili aziendali ma il rapporto di lavoro si dovrà svolgere con le caratteristiche proprie della subordinazione con l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare, al rispetto di un orario di lavoro imposto del datore ed avere in generale tutte quelle caratteristiche proprie di un lavoratore subordinato.

L’orientamento dell’INPS nel corso degli anni è stato quello di disconoscere i rapporti di lavoro subordinato instaurati con soci che, a prescindere dalla quota posseduta, o ricoprivano anche il ruolo di amministratore della società, o svolgevano la propria prestazione lavorativa con carattere di autonomia senza alcun assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro.

Al fine di rendere legittimo il ruolo di socio e lavoratore subordinato che ricopre anche la figura di amministratore, è necessaria la presenza di un organo amministrativo collegiale (consiglio di amministrazione) che non lasci il potere direttivo nelle mani di un unico soggetto (che avrebbe il doppio ruolo di dipendente ed amministratore unico della Srl).

Socio lavoratore e amministratore della Srl/Srls
Non va confuso inoltre il ruolo di amministratore con il ruolo di socio lavoratore e l’obbligo contributivo appena descritto.

L’eventuale compenso percepito nel ruolo di amministratore della società non autorizza lo svolgimento di attività lavorativa in azienda e non ha nessuna correlazione con il ruolo di socio di capitali esclusivo.

Resta quindi invariato l’obbligo o meno di contribuzione alla gestione commercianti o artigiani.

Il compenso amministratore sarà infatti soggetto ad una contribuzione aggiuntiva proporzionale a quanto percepito, dovuta alla Gestione separata. La duplice iscrizione (gestione commercianti/artigiani e gestione separata) è obbligatoria nei limiti della prescrizione quinquennale (C. Cost. 26 gennaio 2012 n. 15).

Si potrà quindi configurare una delle seguenti fattispecie:

Ruolo ricoperto Obbligo contributivo
Socio non amministratore con svolgimento di prestazione lavorativa Gestione commercianti
Socio e amministratore con svolgimento di prestazione lavorativa Gestione commercianti + Gestione separata INPS sul compenso percepito (aliquota agevolata al 24%)
Socio e amministratore senza svolgimento di prestazione lavorativa Gestione separata INPS sul compenso percepito (aliquota ordinaria al 33,72% *per l’anno 2019)

E se un lavoratore autonomo svolge più attività contemporaneamente?
Un lavoratore che esercita contemporaneamente più attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria, ha l’obbligo di iscrizione alla gestione INPS che corrisponde all’attività alla quale si dedica in maniera prevalente (art. 1, c. 208, L. 662/96).

Lo svolgimento di più attività autonome non farà scattare quindi una doppia imposizione in capo al lavoratore che verserà la sua contribuzione solo per l’attività svolta con prevalenza.

Restano, invece, esclusi dall’applicazione di detto principio i rapporti di lavoro per i quali è obbligatoriamente prevista l’iscrizione alla Gestione separata INPS ed il lavoratore è tenuto alla doppia contribuzione, come da tabella:

1a attività 2a attività Obbligo contributivo
Commerciale Artigiana Solo alla Gestione propria dell’attività svolta in prevalenza
Impresa commerciale o artigiana Lavoro autonomo soggetto alla contribuzione presso la Gestione Separata (ad es. liberi professionisti senza Cassa) Doppia: Gestione artigiani e commercianti + Gestione Separata
Coltivatore diretto Commerciale di vendita dei prodotti della coltivazione Solo alla Gestione propria dell’attività svolta in prevalenza
Consigliamo un’attenta valutazione sia in fase di costituzione di nuove società di capitali in generale che di nuovi rapporti di lavoro, autonomi o subordinati, al fine di inquadrare correttamente ogni lavoratore alla giusta contribuzione ed evitare sanzioni in caso di controlli ispettivi.

Le scelte sul tipo di società e sulla distribuzione delle quote societarie influenzerà inevitabilmente gli obblighi contributivi dei soggetti che ne faranno parte.

Compensi e provvigioni erogati ai forfetari nella Certificazione Unica 2020

La compilazione della Certificazione Unica 2020 interessa i soggetti in regime forfetario sotto due profili:
– quali destinatari della certificazione rilasciata dai sostituti d’imposta che abbiano corrisposto loro compensi o provvigioni nel corso del 2019;
– quali obbligati al rilascio della certificazione ai contribuenti-sostituiti cui abbiano erogato somme assoggettate a ritenuta alla fonte nel corso del 2019.

In relazione ai compensi e alle provvigioni erogati a persone fisiche esercenti attività d’impresa o di lavoro autonomo che si sono avvalse nel 2019 del regime forfetario ex L. 190/2014 (oppure del regime di vantaggio ex DL 98/2011), i sostituti d’imposta sono tenuti a rilasciare e trasmettere la Certificazione Unica 2020, anche se non sono state operate ritenute.

A tale riguardo, in base alle istruzioni alla compilazione della modulistica, deve essere compilata la parte relativa alla certificazione dei redditi di lavoro autonomo, delle provvigioni e dei redditi diversi:
– specificando la tipologia reddituale cui afferiscono le somme corrisposte (es. A – prestazioni di lavoro autonomo rientranti nell’esercizio di arte o professione abituale; Q o R – provvigioni corrisposte ad agente o rappresentante di commercio; W – corrispettivi per prestazioni relative a contratti d’appalto);
– indicando il medesimo importo nel punto 4 “Ammontare lordo corrisposto” e nel punto 7 “Altre somme non soggette a ritenuta”.
Si ricorda che da tale ammontare è escluso il contributo integrativo alle Casse previdenziali private, mentre va computata la maggiorazione del 4% addebitata ai committenti in via definitiva dai professionisti iscritti alla Gestione Separata INPS.

Per quanto concerne gli adempimenti in qualità di sostituto d’imposta, i contribuenti in regime forfetario non sono tenuti a operare le ritenute alla fonte di cui al Titolo III (artt. 23-30) del DPR 600/73, ad eccezione, a decorrere dal 1° gennaio 2019, delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e a questi assimilati di cui agli artt. 23 e 24 del DPR 600/73 (art. 1 comma 69 della L. 190/2014, come modificato dall’art. 6 del DL 34/2019).
Per le somme corrisposte aventi natura diversa dai redditi di lavoro dipendente e a questi assimilati, i soggetti in regime forfetario hanno comunque la facoltà di operare le ritenute alla fonte, senza che ciò costituisca comportamento concludente per la fuoriuscita dal regime forfetario (circ. Agenzia delle Entrate n. 9/2019, § 4.2).

Da tale quadro si ricava come i soggetti in regime forfetario siano obbligati al rilascio della Certificazione Unica 2020 ai soggetti cui abbiano erogato nel 2019:
– somme a titolo di redditi di lavoro dipendente o a questi assimilati, riportando, oltre ai dati previdenziali e assistenziali, anche quelli fiscali;
– somme a diverso titolo sulle quali è stata facoltativamente operata la ritenuta alla fonte (es. sul compenso per la prestazione resa nel 2019 al forfetario dal professionista in regime ordinario).

Invece, la Certificazione Unica non deve essere rilasciata con riferimento a quelle somme per le quali il soggetto forfetario non abbia rivestito la qualifica di sostituto d’imposta, non operando la ritenuta alla fonte ordinariamente prevista in forza della specifica dispensa riconosciuta dall’art. 1 comma 69 della L. 190/2014.
Per tali somme, nel quadro RS del modello REDDITI PF (righi da RS371 a RS373 nel modello REDDITI 2019), il contribuente forfetario indicherà il codice fiscale del percettore dei redditi per i quali all’atto del pagamento degli stessi non è stata operata la ritenuta e l’ammontare dei redditi stessi.

Il prospetto deve essere compilato facendo riferimento ai redditi e ai compensi pagati nel periodo d’imposta oggetto di dichiarazione, indipendentemente dal motivo per cui la ritenuta non sia stata effettuata. La compilazione dei righi preposti deve avvenire, ad esempio, anche quando il soggetto percipiente sia a sua volta un soggetto forfetario per il quale la ritenuta non si applica ex art. 1 comma 67 della L. 190/2014 (circ. Agenzia delle Entrate n. 10/2016, § 4.2.3).

Fattura medico. Indicazione rivalsa ENPAM (NO!)

Domanda – Ferme restando le indicazioni previste in materia di fatturazione elettronica, un medico in regime “ordinario” che fattura le prestazioni ad una struttura privata (società) è tenuto ad applicare la ritenuta d’acconto? Per quanto concerne, invece, la rivalsa della cassa ENPAM (4%) il suo inserimento è solo facoltativo?

Risposta – Prima di rispondere al suo quesito è opportuno richiamare le indicazioni operative previste in materia di fatturazione elettronica per le prestazioni sanitarie; per il periodo d’imposta 2019, come da art. 9-bis del D.L. 135/2018 e ss.mm.ii, gli “operatori sanitari” hanno dovuto rispettare il divieto di emettere fattura in formato elettronico per le prestazioni sanitarie effettuate nei confronti delle persone fisiche indipendentemente dall’obbligo o meno dell’invio dei dati di spesa al S.t.s.; il decreto fiscale (D.L. 124/2019) ha esteso il divieto in parola anche per il periodo d’imposta 2020.

In termini pratici, come ribadito dall’Agenzia delle Entrate nella Risposta n° 78/2019:

  • le prestazioni sanitarie effettuate nei confronti di persone fisiche non devono mai essere fatturare elettronicamente via SdI, a prescindere, sia dal soggetto (persona fisica, società, ecc.) che le eroga, sia dall’invio o meno, dei relativi dati al Sistema tessera sanitaria;
  • qualora, nell’erogare la prestazione, come nel suo caso, la struttura privata si avvalga di soggetti terzi esterni (ad esempio i medici), che fatturano il servizio reso alla struttura e non direttamente all’utente, gli stessi soggetti, fermi eventuali esoneri che li riguardino (cfr. l’articolo 1, comma 3, sesto periodo, del d.lgs. n. 127 del 2015), devono documentare la prestazione a mezzo fattura elettronica via SdI.

Venendo al suo quesito, per quanto riguarda la ritenuta d’acconto, il medico che fattura a una struttura privata deve puntualmente indicarla; il compenso percepito sarà dunque al netto della ritenuta con scomputo della stessa nella dichiarazione dei redditi.

In merito all’eventuale rivalsa, art. 8 comma 3 D.Lgs 103/96, in vigore per le altre casse di previdenza private, la stessa non deve essere indicata in fattura in quanto la cassa di previdenza di medici ed odontoiatri (ENPAM) non prevede alcun contributo a carattere di rivalsa.

Attenzione a non confondere il contributo in parola con quello previsto a carico di società professionali mediche ed odontoiatriche, in qualunque forma costituite, e società di capitali, operanti in regime di accreditamento col Servizio sanitario nazionale; soggetti tenute a versare, un contributo pari al 2% del fatturato annuo attinente a prestazioni specialistiche rese nei confronti del Servizio sanitario nazionale e delle sue strutture operative, senza diritto di rivalsa sul Servizio sanitario nazionale.

Deducibile il costo dell’acqua per i dipendenti

Una ditta acquista acqua minerale confezionata in bottiglie per il suo consumo, nel luogo di lavoro, da parte dei dipendenti e dei soci che vi prestano la loro opera. Detto costo si può considerare deducibile? L’Iva ad esso applicata è da considerare detraibile?L’Iva relativa all’acquisto o all’importazione di alimenti e di bevande non è ammessa in detrazione ad eccezione degli alimenti e bevande che formano oggetto dell’attività propria dell’impresa o che sono somministrati in mense scolastiche, aziendali o interaziendali o mediante distributori automatici collocati nei locali dell’impresa (articolo 19-bis1, lettera f) del Dpr 633/1972).Si ritiene che il costo dell’acqua destinata ai dipendenti sia deducibile ai sensi e nei limiti dell’articolo 100, comma 1 del Tuir come spese per finalità ricreative, mentre non risulta deducibile quella destinata ai soci.

caffe’ e boccioni acqua

Acquisto delle cialde di caffè
La risoluzione 103/E/2016 ha ritenuto corretto applicare l’aliquota Iva del 10%, affermando, però, la – non detraibilità in capo all’acquirente: affermazione che non pare in linea con il dettato dell’articolo 19-bis.1 del Dpr 633/72, secondo il quale l’indetraibilità dell’Iva per somministrazione di alimenti e bevande prevede l’eccezione dell’erogazione mediante distributori automatici. 
– Erogazione di acqua tramite boccionila detraibilità dell’Iva dovrebbe essere motivata dalla somministrazione tramite distributori automatici.
COSTOPer quanto concerne la deducibilità del costo delle cialde e dell’acqua, va segnalato che, in linea generale, l’articolo 54 del Tuir (Dpr 917/86) prevede che le somministrazioni di alimenti e bevande siano deducibili nella misura del 75%; ma, se vengono eseguite tramite distributori automatici, si ritiene che si possa dedurre la spesa nella misura integrale, in quanto inerente all’esercizio dell’attività professionale.
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Note di credito per merci difettose anche senza restituzione dei beni distrutti presso il cliente

In ambito commerciale può accadere che le merci acquistate da un soggetto passivo IVA presso un suo fornitore presentino vizi tali da rendere le stesse inutilizzabili e irrecuperabili.
Se il cessionario ha già pagato il corrispettivo pattuito, risultante dalla fattura di vendita, e rinuncia alla sostituzione dei beni, può comunque richiedere al fornitore il rimborso delle somme versate nonché di farsi carico delle spese di restituzione.

Tuttavia, è possibile che i costi di restituzione delle merci difettose o deteriorate siano tali da rendere più conveniente la distruzione delle merci medesime presso il cessionario, senza che i beni siano restituiti al cedente. In tale situazione, è necessario valutare quali siano gli obblighi a carico delle parti per la rettifica dell’operazione ai fini dell’IVA e se tali obblighi siano condizionati o meno alla restituzione dei beni dall’acquirente al fornitore.

Si osserva, in primo luogo, che la fattispecie descritta può essere ricondotta all’ipotesi in cui l’operazione viene meno a causa della risoluzione del contratto dovuta a inadempimento di una delle parti (art. 1453 c.c.), nello specifico, del cedente. Infatti, quest’ultimo è normalmente tenuto a garantire che i beni ceduti siano immuni da vizi, sia in forza dell’art. 1490 c.c., sia in base alle previsioni contrattuali.
Nella fattispecie, dunque, può ritenersi applicabile la procedura di variazione di cui all’art. 26 comma 2 del DPR 633/72 che, fra le cause giustificative per la rettifica in diminuzione dell’IVA addebitata, contempla anche quella della risoluzione del contratto. Il cedente può perciò emettere una nota di credito nei confronti del cessionario, a “storno” degli importi addebitati originariamente.

Ipotizzando che l’operazione originaria sia già stata annotata sul registro IVA delle vendite (artt. 23 del DPR 633/72), la rettifica potrà essere effettuata, alternativamente:

  • mediante specifica annotazione (con segno negativo) nel suddetto registro delle vendite o dei corrispettivi (come dispone l’art. 26 comma 8 del DPR 633/72);
  • mediante annotazione nel registro degli acquisti di cui all’art. 25 del DPR 633/72 (modalità riconosciuta dalla C.M. n. 27/1975 e C.M. 23 febbraio 1994 n. 13).
    Ad analoga e opposta rettifica procede il cessionario ove abbia già annotato l’operazione di acquisto sul registro di cui all’art. 25 del DPR 633/72.

La nota di variazione in diminuzione deve essere emessa al più tardi entro la data di presentazione della dichiarazione IVA relativa all’anno in cui viene rilevato il vizio della merce consegnata, elemento che legittima la risoluzione del contratto e, dunque, presupposto al verificarsi del quale è possibile operare la variazione (circ. Agenzia delle Entrate n. 1/2018, ris. Agenzia delle Entrate n. 85/2009).
La validità della procedura di rettifica qui descritta non appare condizionata alla circostanza che le merci difettose siano restituite al fornitore. Si ritiene, infatti, che le parti siano libere di stabilire contrattualmente se i beni debbano o meno essere restituiti dal cessionario al cedente.

La restituzione dei beni non costituirebbe una condizione essenziale neanche ai fini dell’esclusione da IVA dell’eventuale operazione di sostituzione dei beni eseguita dal cedente nel periodo di validità della garanzia.
Pertanto, se la restituzione dei beni, a seguito di una valutazione delle parti, risulta antieconomica e si procede alla distruzione delle merci difettose presso l’acquirente, la procedura di rettifica in diminuzione dovrebbe ritenersi comunque applicabile.

Occorrerà in ogni caso fornire prova della distruzione ai fini del superamento della presunzione di cessione di cui all’art. 1 del DPR 441/97.
Con riferimento alla distruzione di prodotti difettosi (sul territorio italiano), la prassi amministrativa (R.M. n. 561445/91) ha ritenuto ammissibile, ad esempio, una procedura nell’ambito della quale:

  • il cedente invia presso la sede del cessionario un ispettore che accerta i vizi delle merci, effettua sui beni modifiche tali da renderli invendibili e redige relativo verbale di constatazione, consegnandone copia sia al cliente che al cedente;
  • quest’ultimo emette una nota di credito;
  • il cessionario provvede direttamente alla distruzione dei beni.
    Il caso esaminato dal documento di prassi aveva ad oggetto distruzioni causate da eventi che si ripetono con regolarità.

Invece, in caso di distruzioni effettuate in ragione di eventi eccezionali, la prova della distruzione deve essere fornita:

  • con i mezzi previsti dall’art. 2 comma 4 del DPR 441/97 (invio di tempestiva comunicazione agli Uffici, redazione del verbale da parte dei funzionari ovvero, in taluni casi, della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, predisposizione del documento di trasporto per i beni risultanti dalla distruzione);
  • dal formulario di identificazione ex art. 193 del DLgs. 152/2006, se la distruzione è stata affidata a soggetti terzi, autorizzati allo smaltimento dei rifiuti.

Reverse Charge Tindeggiatura

L’attività di intonacatura e stuccatura e quella di tinteggiatura sono soggette a reverse charge. Il regime dell’inversione contabile si applica, infatti, anche alle prestazioni di completamento di edifici (lettera a-ter del sesto comma dell’articolo 17 del Dpr 633/1972). Il termine “completamento di edifici” è utilizzato dal legislatore in modo atecnico poichè l’articolo 3 del Testo unico dell’edilizia non menziona la nozione di completamento, ma fa riferimento a interventi quali manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia.

Ai fini dell’individuazione delle prestazioni rientranti nella nozione di completamento di edifici, pertanto, occorre fare riferimento alle classificazioni fornite dai codici attività Ateco 2007; vi rientrano anche le attività di intonacatura e stuccatura, codice Ateco 43.31.00, e quella di tinteggiatura, codice Ateco 43.34.00 (circolare 14/E del 2015).

Scaricamento Massivo fatture ricevute – script Python

Scraper per il servizio Fatture e Corrispettivi. Librerie da installare via pip: requests e pytz SOTTO LICENZA MIT

Dati di input in ordine:

CF (o codice Entratel) di FeC. PIN di FeC. Password di FeC. Partita IVA Data dal Data al

Es. py fec.py CRPSVT75H10A089C 123456PIN PASSWORD PARTITA_IVA 01012019 31032019

Nella sottocartella Ricevute troverai le tue FE e i relativi metadati.

Librerie da installare via pip: requests e pytz.

download massivo delle fatture

https://github.com/socrat3/FeCscraper/

E’ necessario dichiarare la cartella ricevute case sensitive in windows.
Supponiamo che fec.py sia installato in C:\ADE e la cartella Ricevute sia in C:\ADE\Ricevute .
Seguendo questo tutorial (https://www.howtogeek.com/354220/how-to-enable-case-sensitive-folders-on-windows-10/) basta dare il seguente comando: fsutil.exe file setCaseSensitiveInfo C:\ADE\Ricevute enable.

Se vi viene dato un messag. di errore, dovrete dare i seguenti comandi

Enable-WindowsOptionalFeature -Online -FeatureName Microsoft-Windows-Subsystem-Linux

Per verificare se una dir ha abilitato la funzione case sensitive digitare come amministratore

fsutil.exe file queryCaseSensitiveInfo C:\ADE

Per installare le librerie

python -m pip install requests
python -m pip install pytz

Per poter utilizzare il file fec_corrispettivi.py, occorre installare

python -m pip install python-dateutil

Se ci sono problemi di certificati SSL

pip install –trusted-host pypi.org –trusted-host files.pythonhosted.org requests
pip install –trusted-host pypi.org –trusted-host files.pythonhosted.org pytz

Per la decodifica del file procedere con il comando

openssl base64 -d -in “IT03632460485_1E50O.xml.p7m” -out “DECODED_IT03632460485_1E50O.xml.p7m”

Canoni d’affitto non percepiti: basta l’avvio del procedimento per non dichiararli

Non è più necessario arrivare alla definizione del procedimento di convalida di sfratto dell’inquilino moroso per non dover dichiarare i canoni d’affitto non percepiti, sarà infatti sufficiente che sia stato intimato lo sfratto o che ci sia un’ingiunzione di pagamento.

Questo quanto introdotto dall’art. 3-quinquies, D.L. n. 34/2019, c.d. Decreto Crescita, che ha riformulato il testo dell’art. 26, TUIR, con riferimento ai contratti di locazione:

esclusivamente di immobili ad uso abitativo;
stipulati a partire dal 1° gennaio 2020.
Nella nuova formulazione dell’art. 26 è inoltre stabilito che i canoni non dichiarati, o dichiarati fruendo del relativo credito d’imposta, ed incassati in anni successivi devono essere assoggettati a tassazione separata.

La precedente disciplina, ancora applicata ai contratti di locazione stipulati fino al 31 dicembre 2019, prevedeva che il locatore potesse non dichiarare i canoni non percepiti solo se vi era stata la conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi.

Con le novità apportate dal Decreto Crescita, il locatore può non dichiarare i canoni non effettivamente incassati purché la mancata percezione sia comprovata dall’intimazione di sfratto per morosità o da un’ingiunzione di pagamento.

Resta ferma la possibilità di richiedere il riconoscimento di un credito d’imposta relativamente alle imposte versate su affitti non percepiti ma solo se questo è accertato nell’ambito di un procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità.

È imponibile il credito d’imposta registratore telematico

L’articolo 2, comma 6-quinquies, D.Lgs. 127/2015 prevede, per gli anni 2019 e 2020, la fruizione di un contributo sotto forma di credito d’imposta fissato in misura pari al 50% della spesa sostenuta per l’acquisto o l’adattamento di ogni singolo registratore telematico, con un massimo di:

  • 250 euro, in caso di nuovo acquisto;
  • 50 euro in caso di adattamento.

Con il provvedimento dell’Agenzia delle entrate n. 49842 del 28 febbraio 2019 sono state definite le modalità attuative per la fruizione del beneficio e con la risoluzione AdE 32/E/2019 è stato istituito il codice tributo (6899) – Credito d’imposta per l’acquisto o l’adattamento degli strumenti mediante i quali sono effettuate la memorizzazione elettronica e la trasmissione telematica all’Agenzia delle entrate dei dati dei corrispettivi giornalieri – articolo 2, comma 6-quinquies, del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 127 – per l’utilizzo con F24.

In effetti il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente in compensazione nel modello F24, mediante i servizi telematici messi a disposizione dall’Agenzia delle entrate (Fisconline / Entratel):

  • a decorrere dalla prima liquidazione Iva periodica successiva al mese di annotazione della fattura d’acquisto o di adattamento;
  • dopo che sia stato pagato, con modalità tracciabili, il corrispettivo della fattura d’acquisto o di adattamento.

Si deve poi ricordare che:

  • l’utilizzo in compensazione del credito d’imposta in esame non è soggetto ai limiti di cui agli articoli 1, comma 53, L. 244/2007 (000 euro) e 34 L. 388/2000 (700.000 euro);
  • il credito in esame va indicato nella dichiarazione dei redditi dell’anno d’imposta in cui è stata sostenuta la spesa e nelle dichiarazioni successive, fino alla conclusione dell’utilizzo.

Se la disciplina che regola la spettanza, nonché il funzionamento, del beneficio in questione non presenta particolari criticità, lo stesso non può dirsi in relazione al relativo trattamento contabile e ai fini delle imposte sul reddito e Irap.

Sul tema non si rinvengono chiarimenti ufficiale né il dato normativo se ne interessa. Occorre, quindi, rifarsi ai principi di ordine generale.

Il corretto trattamento contabile di un credito d’imposta dipende dalla sua origine. A tal riguardo si distingue tra:

  • crediti d’imposta generati da un investimento;
  • crediti d’imposta derivanti da altre cause (ad esempio il credito d’imposta pari al 10% dell’Irap, peraltro abrogato dal 2019).

Pare evidente che il credito d’imposta in esame debba essere ricondotto alla prima categoriacorrelata all’effettuazione di un investimento (acquisto del registratore telematico).

A ben vedere, i crediti d’imposta da includere nella prima fattispecie si dovrebbero ritenere assimilabili ai contributi in conto impianti e, quindi, seguire le medesime regole di contabilizzazionerisconto del provento lungo la durata della vita dell’investimento con imputazione nella voce di conto economico “A5 – Altri ricavi e proventi” della relativa quota di competenza.

Se si decide di aderire a tale interpretazione, siccome la norma non ne prevede l’esclusione da imposizione, il credito d’imposta non può che assumere rilevanza, come componente positivo, per la quota imputata in conto economico, ai fini delle imposte dirette (Irpef/Ires) nella determinazione del reddito d’impresa. Ciò sia se l’impresa applica la derivazione rafforzata sia se applica la derivazione semplice, nonché se adotta la contabilità semplificata e quindi calcola il reddito in base al regime per cassa.

A tal ultimo riguardo, infatti, si deve tener conto che anche in tale regime, improntato alla cassa, i contributi in conto impianti vanno tassati per competenza, poiché le istruzioni alla compilazione del modello Redditi, in corrispondenza del rigo RG10, in cui vanno dichiarati gli altri componenti positivi che concorrono a formare il reddito, prevedono che vada indicata con il codice 13 “la quota dei contributi destinati all’acquisto di beni ammortizzabili, nell’ipotesi in cui il costo dei beni sia registrato al lordo dei contributi ricevuti”.

Per quanto riguarda l’Irap, occorre considerare che gli articoli 5 e 5-bis D.Lgs. 446/1997 prevedono che i contributi spettanti in base a norma di legge, quale che ne sia la natura, sono sempre destinati a concorrere alla formazione della base imponibile del tributo regionale, rispettivamente, delle imprese che la determinano secondo il cosiddetto metodo da bilancio e delle imprese che applicano il metodo fiscale (si vedano, al riguardo, i precedenti contributi “L’imponibilità Irap dei contributi delle imprese Irpef” e “L’imponibilità Irap dei contributi nel metodo da bilancio”).

L’esclusione dall’Irap opera solo per i contributi correlati a componenti negativi non ammessi in deduzione, nonché per i contributi la cui detassazione è prevista dalle singole leggi istitutive ovvero da altre disposizioni di carattere speciale.

Siccome il credito d’imposta in analisi dovrebbe essere inquadrato come contributo spettante in base a norma di legge, non applicandosi alcuna “causa di esclusione”, si dovrebbe concludere che esso debba essere considerato imponibile anche ai fini Irap.